Al 25 aprile ci tengo. La maggior parte delle festività nazionali mi scivola addosso, ma questa ha un significato per me importante, da parecchi anni. E non solo per la Liberazione dal nazifascismo, anzi. Prima che politiche, ho motivazioni personali, affettive, familiari.

Sono state scritte biblioteche sull’argomento, non è il caso di parlarne neppure in maniera sommaria, e oltretutto il mio paese si è liberato un anno prima del 1945, il primo luglio, e per me la data da festeggiare è questa.

Resta il fatto che, da tesserato ANPI ad honorem per anni – oggi ho la nausea ad avvicinarmi all’ANPI, fortuna il distanziamento sociale, e non per quello che rappresenta l’associazione ma per quello che (non) fa e per come (non) lo fa, e non solo dalle mie parti – al 25 aprile non rinuncio.

25 aprile, un simbolo che non vi concedo

Il 25 aprile, al mio paese, si sale sul monte Pagliano, tra Matelica e Sanseverino, alla tomba del Capitano Salvatore Valerio per rendere omaggio ai caduti della battaglia del 24 marzo 1944. Primo tra tutti la medaglia d’oro al valor militare Valerio, inviato dal comandante Mario Depangher a salvare il battaglione dai tedeschi ormai al valico, sacrificatosi per fermare il nemico. Qui la storia e qui una pubblicazione per saperne di più.

valdiola

Monte Pagliano, Valdiola (Sanseverino Marche)

Il 26 aprile 1944, poi, la rappresaglia nazifascista trucidò, in quel di Valdiola, la famiglia Falistocco, con la scusa di aver protetto partigiani.

Rino Falistocco, figlio e fratello dei caduti di Valdiola, il 9 settembre 1943 – in Albania – fu fatto prigioniero insieme ai sui compagni e deportato nel campo di concentramento di Bismarckhütte in Polonia, poi in Russia, come lavoratore coatto nell’industria bellica nazista. Al suo riorno a casa, da reduce e con mezzi di fortuna, trovò solo le macerie della sua casa e una lapide al posto della sua famiglia.

Rino Falistocco era mio nonno.

Ecco perché, oggi, sentendo proposte di pacificazione sul 25 aprile per dedicare questa data a tutti i caduti in guerra – e addirittura ai morti per CoVid19 – rabbrividisco. Andatelo a dire a mio nonno. Andatelo a dire ai martiri del ponte di Chigiano. Andatelo a dire a Marzabotto. E andatevene affanculo.
Paragonare vittime a carnefici è il primo passo verso il rovesciamento di significato del 25 aprile, e non è da oggi che ci provano. Che schifo.

Andrò sul monte, da solo e non vedo l’ora, appena ci lasceranno uscire di casa. Ci avete rubato il 25 aprile, con questa quarantena, ma per me è 25 aprile ogni giorno. Al capitano Valerio, poi, non importa più dei calendari, e al mio omaggio annuale sono sicuro che sa dare importanza, nel suo Valhalla.

Calligrafia come impegno sociale (e gesto politico)

Costretti in questa reclusione, in questa limitazione di libertà imposta in nome di un benessere collettivo discutibile, ho voluto celebrare il mio 25 aprile con la calligrafia. Bella scrittura e Resistenza le ho sempre legate, d’altra pare.
Già che in questa stessa settimana cade anche il 150mo anniversario della nascita di Lenin, mi sono imbattuto in questa poesia del compagno Vladimir Majakovskij, in cui si celebra l’arte come strumento di costruzione della realtà.

Ho scritto con un nuovo inchiostro ferrogallico ancora in fase di test, ma quasi pronto per essere giudicato, e un pigmento rosso vermiglione Fox And Quills, su carta fatta a mano, 100% cotone, da Manualis Cartiera in Fabriano.

Ecco, mi piacerebbe che ogni nostra azione portatrice di significato, come la calligrafia, non sia un gesto conseguente alle trasformazioni sociali, ma una causa delle medesime. Perché ogni nostro gesto è un gesto politico.

In altre parole, vorrei che la mia calligrafia non fosse un riflesso di una tendenza o di una moda o il frutto di una combinazione di cause, ma l’innesco per cambiare qualcosa. E riuscisse a cambiare il pensiero di uno o cento o mille, cambiare il piccolo per muovere il grande.

Ora e sempre, Resistenza.

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