Una settimana culturale, nella scuola, è un breve periodo in cui le attività didattiche sono sospese a vantaggio di altre iniziative culturali. Nell’istituto in cui sono insegnante di sostegno, appena conclusi gli scrutini è stata avviata una settimana culturale e ogni docente ha contribuito con idee, competenze, proposte e disponibilità per realizzare laboratori, eventi, attività ed incontri con i ragazzi su diverse tematiche. Anche io mi sono messo in gioco per tirare su un workshop che potesse piacere ai miei, e tra le cose che so fare che potevo condividere con loro ho scelto ovviamente la calligrafia.

Avrei voluto frequentare tutte le attività proposte dai colleghi: cineforum, nordic walking, cinofilia, karate, yoga, canto, lingua cinese, stampa 3D, saldatura virtuale; visite in azienda, caccia al tesoro, orienteering… Ognuno di noi sa fare qualcosa oltre la sua professione, e una settimana culturale era l’occasione per condividerla. Il mio piano era buttar su giusto un paio d’ore di bella scrittura per i ragazzi per dare il mio modesto contributo e godermi il resto della settimana come frequentante culturale, ma qualcosa è andato storto. Predisponendo il calendario mia moglie, che lavora con me nella medesima scuola, sono stato precettato e il mio laboratorio inserito ovunque ci fosse un buco nelle tante ore di programma. Una proposta che non potevo rifiutare, come è facile immaginare.
Ho accettato comunque di buon grado e tenuto quindi quasi venti ore di workshop di calligrafia ai miei studenti; hanno partecipato praticamente tutti i cento e cento e passa studenti dell’istituto.

L’istituto professionale

Essere un docente di sostegno in un istituto professionale di provincia come il mio non è facile. Non c’è specializzazione che tenga o che, spesso, fornisca una preparazione adeguata per certe situazioni cui è facile trovarsi davanti. Siamo l’ultimo anello della catena: dopo di noi c’è la strada. Non siamo in un liceo, o in un istituto tecnico, dove chi si trova male o è insoddisfatto o non ottiene risultati può scendere verso altri istituti in una sorta di downgrade. No, dopo il professionale c’è l’abbandono scolastico, con tutte le sue conseguenze. Ne ho visti andarsene già più di un paio, da inizio anno. Tutta la classe docente lo sa, e come risuona un campanello di allarme si attiva collettivamente e coralmente; non ho mai visto tanta attenzione a formare una barriera del genere, da parte dei docenti – che più volte ho trovato schierati alle mie spalle, quando pensavo di aver ormai perso la presa sul ragazzo – in altre scuole. Una visione dell’inclusione che non sancisco io, ma che la stessa ASUR ci ha riconosciuto. Eppure, agli occhi del pubblico, restiamo frequentemente gli ultimi.

Poco male. Nelle mie classi ci sono marocchini, tunisini, albanesi, macedoni, kosovari, romeni, russi, cubani, indiani; sardi, campani, siciliani. Classi che mi hanno incluso senza problemi fin dal primo giorno del mio tirocinio, lo scorso anno. Ragazzi con cui mi sono subito sentito a mio agio, a casa; ragazzi che per strada si fermano a parlarti quando ti incontrano, che ti danno il cinque, che ti abbracciano quando ti vedono. Che se manchi un paio di giorni chiedono di te e fanno gli occhi a cuoricino quando torni. Ho scelto con convinzione, volontariamente, di tornare a insegnare qua, quest’anno, quando sono atterrato in prima fascia e potevo permettermi di selezionare le opzioni. E altre scuole le ho viste, in passato, ci ho lavorato, ma qui mi è rimasto il cuore.

Questi ragazzi, in qualche caso fuoriclasse ma anche, a volte, pluriripetenti, spesso con DSA (in certe classi li conti su due mani), estremamente dipendenti dai loro smartphone – e non solo – cui faticano a staccarsi anche a lezione, a volte con problemi con la giustizia, altre con la loro personalità, altre con le famiglie, hanno frequentato i miei laboratori di calligrafia senza sapere cosa fosse la calligrafia. E come in altri casi, hanno stupito tutti (non me: ormai li conosco, e a differenza di alcuni colleghi trascorro molte ore con loro e mi è più facile esaltare il loro potenziale).

Un laboratorio di bella scrittura alla settimana culturale

Esclusi i ragazzi dei terzi con cui lavoro, che nei mesi mi hanno visto tante volte scrivere con una stilografica e ormai in tanti hanno il loro nome in gotico conservato dietro la cover dello smartphone, la maggioranza dei frequentanti non aveva mai visto niente di neanche lontanamente simile alla calligrafia.

Alcuni dei miei non hanno penne, quaderni, zaini; vengono a scuola senza niente oltre al telefono e nei casi in cui serve scrivere forniscono penne e matite i docenti. Ho messo qualche volta delle stilografiche da quattro soldi in mano loro, e ho capito subito che si sarebbero divertiti in questa occasione da come ne rimasero affascinati.

In un paio d’ore per volta, ho raccontato alle classi la storia della scrittura, della carta e dell’inchiostro, ho introdotto un po’ di tipografia, ho fatto riconoscere le font in giro per l’istituto, ho dimostrato come si fa calligrafia con vari strumenti, su vari materiali, ho scritto i loro nomi su carta a mano e c’era la fila per averne.
Ma soprattutto ho temperato le penne d’oca – a decine e decine – e le ho messe in mano loro, accanto a un piccolo calamaio di ferrogallico. Che ve lo dico a fare quanto si sono emozionati nel provare a scrivere, fanciulli che in qualche caso non ricordavano nemmeno la forma delle lettere minuscole corsive, ma con i quali, se c’è da sperimentare un’attività manuale, vado a colpo sicuro.

Sempre di un istituto professionale si parla, e il potenziale di manualità che c’è qui è una risorsa. D’altra parte, è un dato che più della metà, uscendo di qua, lavori già dal giorno dopo. Quanti liceali – me compreso, a mio tempo – dovranno aspettare decenni per uno stipendio spesso più misero di quello che loro coetanei a nemmeno vent’anni si metteranno in tasca? Coetanei che, va sottolineato, tra officine, cucine, sale e laboratori, già lavorano. Conoscere la fatica, la responsabilità, il lavoro a sedici anni ti dà competenze e abilità che tante conoscenze non potranno mai fare. E lo dico da ex liceale ed ex universitario, con rammarico, per certi versi, io e i miei vent’anni sopra i libri per vent’anni successivi di stenti.

* * *

L’ultima ora di questa settimana culturale non avevo più laboratori in programma. Ho preso tutti i miei attrezzi e mi sono sistemato su alcuni banchi in corridoio, per rilassarmi un po’ con qualche alfabeto per conto mio. È girata subito la voce che ero lì e in pochi minuti sono stato circondato dai tanti che nei giorni scorsi erano stati con me, ancora desiderosi di scrivere, o farsi scrivere qualcosa. Questi ragazzi sono tutti figli miei, per me, e rovesciando il portapenne sul banco, distribuendo il ferrogallico su bicchierini del caffè e strappando fogli di cotone in tante strisce ho detto loro “prendete ed usatene tutti”.
Le bidelle hanno impiegato ore a pulire i banchi, mentre i professori si rassegnavano a lasciare con me i ragazzi invece di riportarli in classe.

Li ho visti quelli bravi, alle manifestazioni, che non fanno avvicinare a nessuno alle loro penne. C’è un motivo: ho riportato a casa meno della metà del materiale ancora utilizzabile che ho lasciato ai miei per divertirsi.
Ma non importa. Non mi importa davvero: se devo scegliere tra uno strumento e una persona, tra una penna e una mano, tra una proprietà e un’esperienza, non ci penso due volte.
Devo macinarne ancora, di strada, per fare mio il lavoro dell’insegnante di sostegno, che pratico da precario per il primo anno e per il quale non basta certo una specializzazione. Ma metto i miei ragazzi avanti a tutto, come via maestra. E qualcuno venga a dirmi che sbaglio, così lo faccio parlare con loro 😀

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