Che siete grafomani lo so. Chi ai laboratori, chi sui social, chi di persona, chi con la parola lo scritto e qualsiasi altro mezzo, me lo sottolineate prima ancora di presentarvi, quanto vi piace scrivere a mano. Quanto non possiate più farne a meno, quanto non perdiate occasione per sostituire lo smartphone con i bullet journal, quanto teniate quaderni e diari e appunti. L’insostituibilità della carta è per voi un dogma. Lo so, e vi capisco. Per me è lo stesso. Scrivere a mano ha tanti vantaggi ma, semplicemente, è un piacere così grande (poi una dipendenza, ma questo teniamocelo per noi), che sempre più persone nauseate dalla tecnologia stanno riscoprendo l’amore per la scrittura.

Un colpo di fulmine, quello della scrittura a mano, che m’ha trafitto oltre un ventennio fa e non accenna a liberarmi. Io, come molti di voi, sono cresciuto negli anni in cui scrivere a mano non era una scelta, ma era l’unica scelta, laddove non si scrivesse a macchina. Alternativa chiaramente improbabile per un ragazzino quale ero e per l’intoccabilità dei tasti della Studio 44 di mio padre. Scrivere a mano, quindi, era l’unica strada per comunicare in molti ambiti della nostra vita negli anni Ottanta, per l’assenza di dispositivi su ogni scrivania; oggi, paradossalmente, per il rifiuto dei medesimi (entro una certa misura, chiaro; sono pur sempre un programmatore che con i terminali lavora).

Oggi ha un senso tutto nuovo la scrittura a mano, è alternativa, è complementare, è strumento per il ritorno a trasmettere emozioni assieme ai messaggi. Ognuno scrive, quando lo fa per sé, per motivi suoi. Chi per confessare, chi per dialogare, ma di certo c’è il piacere della scrittura che della scrittura stessa si autoalimenta, il piacere di scrivere, il gusto fisico e psicologico che porta in sé non come valore aggiunto, ma come vera e propria essenza.
Scrivere costringe a scrivere, è un gesto che si riproduce senza sforzo, per qualsiasi motivo lo si faccia. Il gusto e la forma stessi non possono che evolversi e alla fine anche il gesto finisce per richiedere attenzione, tanto da generare anche un desiderio di miglioramento della grafia, un’attenzione alla calligrafia, un voler scrivere meglio che può portare a frequentare corsi di calligrafia.

Una scrittura a mano che cambia con gli anni. La mia.

In questi corsi, capita che mi chiedano, oltre se la mia scrittura quotidiana sia bella o brutta (è brutta, e lo mostro sempre; calligrafia e lista della spesa non sono la stessa cosa), se ho avuto anche una scrittura peggiore di quella attuale che definisco brutta ma molti sostengono sia più bella della loro (tutte le scritture hanno pari dignità, ce ne sono di più o meno leggibili, di più o meno eccentriche o eleganti o decorate o efficaci ma non conosco criteri oggettivi per dare un voto a una scrittura a mano non calligrafica).

Rottamando l’auto di mia madre, sulla quale mezza mia famiglia prese la patente e che da quasi trent’anni era una costante in quella strada del mio paese natìo, si è reso necessario svuotarla dalle cianfrusaglie che la popolavano. Tra queste, è emersa un’inservibile e usurata cassettina degli anni Novanta, quando ancora giravano i nastri magnetici nelle autoradio. Anni in cui entravo in contatto con realtà che mi avrebbero trascinato a quello che sono oggi, anni in cui l’adolescenza bruciava e io la alimentavo col metal, il punk, il grunge. In questo nastro, la tracklist era scritta di mio pugno, ma ho faticato a riconoscere la mia grafia. Parliamo di In Utero, album del 1993 dei Nirvana. Avevo tredici anni quando scrissi quei titoli.

Mi sono chiesto: quanto e quando è cambiata la mia scrittura negli anni? Ho la fortuna di poterlo verificare. E’ da quegli anni Novanta che scrivo pensieri, appunto stati d’animo, fisso riflessioni su carta. Lo faceva mia sorella maggiore e, nella limitatissima scelta di svaghi che da bambino avevo, presi ad imitarla. Nei Novanta era comunissimo tenere un diario, lo facevano in molti, se ne vendevano di tutti i tipi in cartoleria. Avevano anche i lucchetti, ve li ricordate? Da allora ho riempito decine di quaderni, che erano i miei diari, che oggi ho riesumato.
Li apro e riaccendo i ricordi, ripercorro emozioni, rivivo sentimenti, attraverso l’intensità di momenti antichi.
Nessun file mi restituirà mai le profondità che la mia scrittura ha lasciato sulla carta.

Dallo stampatello ai graffiti al corsivo. Tutto nella stessa scrittura a mano

Chiaro che, per i contenuti di uno spirito tardoadolescenziale riportati in questa scrittura a mano che sto recuperando, nessuno dovrebbe leggere o prendere troppo sul serio le parole. Oggi lo scopo con cui scrivo questo post è altro, più formale che sostanziale, e sui contenuti soprassiedo e vi chiedo di fare lo stesso. Oggi pensiamo allo stile della mia scrittura a mano (e a quella di chiunque abbia la fortuna come me di recuperarla negli anni) e alla sua evoluzione.
In principio era lo stampatello. Orribile, sconnesso. Già, lo stesso stampatello che continuamente condanniamo perché caratterizza la scrittura dei nostri figli che non sanno più scrivere in corsivo. Erano i primi anni Novanta e io facevo lo stesso. Niente di nuovo sotto il cielo. Ho scoperto il corsivo solo al liceo, quando l’odiatissima professoressa di italiano – non riuscendo a decifrare le nostre grafie – ci costrinse a estenuanti esercizi di calligrafia. Dall’odio nacque un amore (non per la professoressa).

Il passaggio da adolescenza a maturità lo ha segnato la scoperta del writing e dell’Hip Hop, che mi hanno cambiato la scrittura e la vita. Niente, dopo quel fine millennio, è stato più come prima. Chi ha vissuto la Vecchia Scuola sa di che parlo. Il corsivo ha lasciato il posto al “graffiti style”, come lo chiamerebbero oggi: una scrittura staccata, spezzata, maiuscola perlopiù, eccentrica, stilosissima, lenta e spesso tanto illeggibile quanto decorativa. Il mio esame di maturità fu scritto così (quel poco che fu scritto; il resto fu bianco e silenzio). Uno stile dal quale non mi sono ancora separato completamente e del quale so che non potrò più fare a meno del tutto.

Il ritorno al corsivo si ha dieci anni dopo. Complice la calligrafia, complice la voglia di lasciare un sentimento in ogni testo – il “graffiti quella cosa lì” è una scrittura stilosa ma artefatta – ho ricominciato a legare le lettere, a scrivere in minuscolo e a inclinare le aste. Ad oggi ancora mi muovo su quelle linee.
Sui contenuti soprassediamo, tutti siamo stati adolescenti.

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