Con Michael Sull e Barbara Calzolari abbiamo studiato Spencerian, flourishing e ornamental penmanship

Dal corso di Spencerian con Michael Sull sono uscito, come era prevedibile, frustrato e frastornato. Ho capito, in quattro giorni di full immersion con un gigante della scrittura come Michael, che lo Spencerian probabilmente non diventerà il mio stile preferito. Lo adoro, ci mancherebbe, oggi più di ieri, ma prendere in mano per la prima volta un Nikko G durante un corso di penmanship di livello avanzato forse non è stata un’ottima idea.

Ho avuto la fortuna di scrivere fianco a fianco con un pezzo di storia della scrittura come Michael, nella mia Fabriano, di trascorrerci anche del tempo assieme senza penholder in mano. E in questi quattro giorni nel chiostro di San Benedetto, con Michael Sull e l’Associazione Ferrogallico dell’ottima Sara Salerno c’era anche Barbara Calzolari, tecnicamente presente solo come interprete, praticamente fonte preziosa di consigli, esperienza, conoscenza. Porto a casa sicuramente più insegnamenti umani che tecnici: nel momento in cui molte delle proprie convinzioni calligrafiche vacillano non poteva essere altrimenti ed è un bene, alla fine, sia andata così.

Spencerian, flourishing e ornamental penmanship: l’insegnamento di Michael Sull

Cosa mi resta, di questo corso, oltre le mostruose ipnotiche performance di Michael? La tenerezza di questa istituzione USA e la sua umiltà, lo sguardo di Barbara Calzolari che mi ha attraversato da parte a parte nel leggermi quello che mi ha letto e qualche concetto che va oltre le linee e gli ovali dello Spencerian.

Iniziamo dalla calligrafia, dallo Spencerian, da qualche appunto tecnico che merita di rimanere impresso e condiviso. Quando scriviamo usiamo avambraccio, polso e dita; con uno solo di questi non andremo lontano, devono coordinarsi in velocità, direzione e pressione. Impariamo a guardarci la mano e non vedere solo cinque dita, ma anche quattro spazi. Il ferrogallico corrode il pennino oggi come un secolo fa, Michael in quattro giorni ne avrà usati dieci almeno; altri inchiostri, come il Sumi, non rovinano l’acciaio ma solo il ferrogallico garantisce tratti sottili come capelli.
Le decorazioni e il flourishing dell’ornamental penmanship, anche il più complesso, si fanno un segno alla volta. “One stroke at time”, l’ha ripetuto decine di volte Michael Sull. “Non abbiate paura, lo farete anche voi, una linea dopo l’altra. Io lo faccio da 35 anni, voi oggi per la prima volta, e per essere la prima volta avete dimostrato che sarete in grado di farlo presto. Una linea alla volta niente sarà complicato e mentre saremo ancora preoccupati di come farlo la mano l’avrà già fatto”.

Lo Spencerian è un giardino: le lettere sono fiori e non c’è un fiore identico ad un altro. Non tutti i fiori sono grandi ed esuberanti, alcuni sono modesti, altri coloratissimi. Lo Spencerian rappresenta l’ideale americano di individualismo, non va pianificato, deve essere libero. “Scrivere è come parlare, nessuno parla come nessun altro. La nostra scrittura deve parlare come noi, non ha senso copiare, non ha senso standardizzarsi. Ogni calligrafia è un giardino, fate pure pratica su lavori altrui ma non fate solo ciò che vedete fatto, seguite la vostra voce, i vostri desideri. Solo così sarete felici. Se credete in qualcosa, se veramente credete in qualcosa, non c’è forza al mondo che possa fermarvi”.

Michael Sull, lo Spencerian, Fabriano e il terremoto

Michael Sull è anziano, ha una lunga storia alle spalle, è unanimemente annoverato tra i più importanti maestri dello Spencerian, erede e prosecutore della tradizione calligrafica americana. Vive in un paesino nel Kansas, è un uomo di un’umiltà spiazzante e una tenerezza inaspettata. Mi ha chiesto cosa stessi guardando, fuori dal chiostro, al sole mattutino di maggio nel centro storico fabrianese. “Vivevo là”, ho indicato a Michael la mia vecchia casa in via Mamiani, “ma il terremoto credo l’abbia danneggiata, sembra non ci abiti più nessuno”. “Cosa si sente durante un terremoto?” mi ha chiesto Michael. Siamo andati a berci qualcosa, non è una domanda a cui rispondi in due parole.

Mi sono trattenuto, non gli ho mostrato nemmeno una foto del mio paese, non c’era motivo per spaventarlo. Alla fine ho indicato le crepe sulle pareti del chiostro benedettino, i calcinacci a terra, i puntellamenti. Questo l’ha turbato, non se n’era accorto, ha iniziato a guardarsi intorno spaesato e mi è dispiaciuto. Ho cercato di rassicurarlo: “Queste fessure sono piccole, non aver paura Michael, non succede nulla, sei al sicuro qua, questo chiostro sta su dal Quattrocento”. “Dal Quattrocento?” si è meravigliato Michael. “Da così tanto?”. Per un americano è dura immaginare qualcosa che duri da più di due o tre secoli. “Pensa che la chiesa qua accanto è del Duecento. Ma il tetto è venuto giù il 30 ottobre 2016”. “Lo aggiusteranno?” mi ha chiesto; poi ha intuito dal mio sguardo la risposta alla domanda che ha capito subito non avrebbe dovuto fare.
Quella mano sulla spalla mi ha trasmesso calore, serenità. Pace.

Credo che da un corso di calligrafia, teorie e tecniche e pratiche a parte, debbano emergere anche insegnamenti di un altro tipo. Come insegnare a scrivere se ogni scrittura sarà diversa? Perché fare calligrafia? Cosa rende una scrittura bella? Per chi e perché scrivere? E soprattutto, cosa dobbiamo chiedere noi alla scrittura? Cosa vogliamo dalla scrittura? Perché lo facciamo? Se non sappiamo questo non ha alcun senso continuare a farlo. Se non ce lo siamo mai domandato sarà difficile trovare un senso a quanto abbiamo fatto fino ad oggi.

Barbara Calzolari, quell’idea di scrittura

Barbara Calzolari faceva da interprete. Bene, ma non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di chiedere il suo punto di vista. Lei è molto rispettata – meritevolmente – come calligrafa, è qualcuno in questo mondo, sia per quello che fa che per come lo fa. L’ho vista scrivere, in quattro giorni, almeno in sei alfabeti con la stessa naturalezza e tanta, tantissima personalità. “Voglio che la mia scrittura sia viva, dobbiamo riempire la scrittura di noi, trasmettere quello che siamo con il nostro scrivere. Solo se mettiamo la nostra vita in quello che facciamo avremo dato un’identità alla nostra calligrafia”. Ovviamente questa è solo una sintesi del pensiero di Barbara. Il concetto che mi ha trasmesso e il modo in cui l’ha fatto probabilmente sono stati, prima di linee, curve e ovali dello Spencerian, alcuni dei momenti per cui è valsa la pena aver frequentato questo corso.

Nelle sue parole ho riconosciuto quello spirito di quando ero un ragazzino infottato con il writing e studiavo le interviste dei mostri sacri, cercavo un significato nelle parole di PhaseII, Vulcan, Eron, Flycat, Dare, Daim e via dicendo. In quei Novanta, dalle pagine di AL e nelle poche fanze o pubblicazioni che si addentravano con secoli di ritardo nella provincia più remota, si parlava di “evoluzione della lettera“. Di stile, dell’andare oltre l’esistente, del rendere riconoscibile il proprio tratto, il proprio tocco, tra centinaia di altri segni.
Anche Michael Sull ha ammesso l’unicità del suo stile: “Chiunque veda un mio lavoro lo riconosce come mio, senza nemmeno saperlo. Il mio modo di vedere il mondo e rappresentarlo sono la mia firma, la mia scrittura, il mio parlare, il mio stile”.

Sul web e sui social, oggi, siamo tutti bravi; chi meglio usa gli strumenti, lì, meglio si vende. Il web è – obtorto collo – il mio lavoro, ne so qualcosa. Poi ho visto i twist del penholder di Michael Sull, ho visto la pressione forte e gentile delle sue dita, ho visto i corsivi in brush di Barbara Calzolari, il loro respiro ora nervoso ora pacifico, sempre sopra le righe.

Io, quindi, ora, non so più se ciò che faccio abbia la dignità per essere definito buona calligrafia; so che di strada da fare per trovare la mia calligrafia ne ho un’infinità, ma l’unica direzione da percorrere è impugnare i pennini per far scorrere vita da me alla carta attraverso loro. Una linea alla volta.

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