Finale Emilia, paesino al confine tra le province di Modena e Ferrara, fu parte del Ducato di Modena e Reggio sotto il dominio della famiglia degli Este. Una rievocazione storica, ogni anno, Finalestense, richiama quei secoli e per tre giorni anima, un po’ filologicamente e un po’ goliardicamente, questa cittadina sul Panaro.
Con L’Associazione Mastri nel Tempo, alla metà di giugno 2018, siamo arrivati in una nutrita carovana da Fabriano per allestire un mercato medievale nell’ambito della manifestazione storica. Maniscalco e tessitrice, barbitonsore e liutaio, mastro cartaio e mago, cordaio e divinatrice, lanaia e scalpellino e, ovviamente, il mio scriptorium di calligrafia antica.

Non tutte le trasferte – numerose – cui prendiamo parte con il nostro progetto filologico targato Mercati Medievali Mastri nel Tempo meritano più di una galleria sulla pagina facebook @bellascrittura. Non perché gli eventi difettino di qualità, anzi, ma perché la frequenza è tanta e rischierei la monotonia degli argomenti. O anche, soprattutto, per un deficit di informazioni: mi trovo spesso ad osservare, sul web, reportage fotografici di eventi in cui ero presente e a meravigliarmi di quanto siano stati affascinanti senza che io – preso dalla scrittura al mio banco – me ne sia accorto.
Recito quindi il mea culpa, pubblico le foto scattate ai miei sodali nei momenti rubati alle nostre attività e mi riprometto, alla prossima occasione, di godermi di più la festa.

A Finale Emilia è andata diversamente. Non tanto in seno a Finalestense, rievocazione della quale, come al solito, ho colto poco, ma in relazione alla città nella quale abbiamo vissuto coi miei soci per tre giorni.

Finale Emilia e il terremoto del 2012

Di Finale Emilia, qualche anno fa, tutta Italia ha sentito parlare. Una denominazione che chi vive dalle mie parti e convive col mostro, quindi conosce la solidarietà, non ha dimenticato, da quel 2012. Il 20 maggio di sei anni fa Finale Emilia fu epicentro di un terremoto di magnitudo 6.1 alle quattro del mattino. Oggi Finale è ancora incatenata, semidistrutta, semideserta. Torna in vita per questi tre giorni di festa coprendo ponteggi e puntelli con drappi e bandiere.
Negli esercizi commerciali che resistono sono esposte le foto simbolo di quella tragedia, la torre dei Modenesi spaccata in due, le macerie del primo mattino ancora fumanti su una terra indomita. La paura dell’abbandono, oltre un lustro dopo, inizia a farsi realtà.

Qua, in val Padana, cuore produttivo d’Italia, dove atterrano i Pontefici a dir messa e la gente si rimbocca le maniche (e non abbandona la sua terra, nonostante sia sfollata, dicono le anagrafi). Cosa accadrà a noi, remoto entroterra appenninico già martoriato dall’esodo di popolazione, dove la prima risposta a quel 6.5 Richter è stata la deportazione sulla costa e l’ultima la cemetificazione accanto alle macerie per costruire inutili strade che attraversano la rovina quando un abitante su due – nel mio paese – non ha più casa e stando così le cose non l’avrà più?

Scrivere mille volte Finale Emilia, nei tre giorni di Finalestense, mi ha fatto sentire vicino a questa popolazione così viva, che ha messo l’anima nella sua festa, forse anche per dimenticare che tra le crepe dei solai sono cresciute piante. Quei sorrisi, di quando per una serata riesci a guardare altrove, ho imparato a riconoscerli anche io.

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